Barbara Duran

Di Riflesso 2007 - Testi

BARBARA DURAN

Per un foss’anche breve discorso sulla pittura recente di Barbara Duran (si tratta, per lo più, di opere degli ultimi tre anni), artista dai non pochi e non discordi interessi (si vedano, ad esempio, alcune sue tavole illustrative, come quelle recenti per “Favole Tuareg”: tutt’altro che illustrazioni come generalmente s’intendono, ma veri brani di pittura), si crede che convenga avviarsi da un’altrettanto breve riflessione su uno dei suoi dipinti di più ampio respiro e, in qualche maniera, più intensi e problematici: Deposizione 2.

Già quando se ne è visitato lo studio, tale dipinto, in mezzo ad alcuni altri, aveva attratto, certo inconsciamente, l’attenzione. C’era, e c’è, in esso un qualcosa che, là per là, aveva avuto capacità suscitatrice e di rivelazione. Rivelazione di un temperamento, anzitutto. Il quale si testimonia per una tensione verso la concezione ritmica d’una sia pur sintetica e criptica narrazione; per una concezione materica che in sé riassume quella di ogni altra elaborazione della pittrice: materia capace di vivere nella fluidità e nella densità, nel grumo come nella sensazione pellicolare; per una partitura di piani compositivi dal “sapore” pressoché geometrico: si veda come, in linea verticale ad esempio, il dipinto si coniughi attraverso quattro piani cromatici, risolti in altrettante forme; per una sciarpatura formale-lineare che, nella figura contraddicendo gli orizzonti prevalenti, evoca l’ellisse e, dunque, nuovamente una ritmica geometria. Il dipinto, insomma, ci aveva interessato, sembrando per di più sollecitare dalla e nella memoria un qualcosa d’un’opera del passato che, là per là, era tuttavia un vago pensiero non del tutto capace di restringersi in un’immagine definita (e che, comunque, trovava collocazione tra Secessione ed Espressionismo). Anche perché -si pensava- fosse una mera e puntuale “citazione”, tale memoria sarebbe soluzione al di là del proprio tempo. Il quale, invece, è vissuto dalla Duran. A patto d’intenderlo, naturalmente, come momento che in sé comprende -e non può non farlo- storia ed attualità. O, meglio: come momento che nella e dalla sua attualità non esclude il pensiero della storia, ma lo continua per sedimentazione.

 

Sarà così che -abbandonata, ogni altra considerazione e ricerca mnemonica su quel dipinto e volgendoci ad altre opere: alcuni dittici (Inverso, Dittico, Dittico) e trittici (Bogarin), ad esempio, come ancora ad altre concepite orizzontalmente, e cadenzate per “comparti” entro cui, attraverso accenti simbolici, sono talune enunciazioni del vissuto (In riflessione)- sarà così, si diceva, che l’impressione d’una consapevolezza della “storia” s’è andata via via confermando. Come s’è andato, di pari passo, confermando il pensiero d’un’attualità. In tal maniera, mentre per le composizioni orizzontali può evocarsi la concezione della “predella”: dunque, immagine plurima ma unitaria in termini di narrazione, può parimenti evocarsi -ed ecco il concetto di sedimentazione che in sé unitariamente racchiude ogni evoluzione- il concetto di sequenza. E, con esso per nulla disperdendo la realtà degli input visivi, quello di “simultaneità”. Sono opere che, solo fraintendendone il significato reale, possono considerarsi quali “appunti” esistenziali. Concetto che, seppur non è da escluder del tutto: d’altronde la pittura vive anche di “appunti” ed è, non di rado, un appunto su una condizione di reciprocità tra autore e realtà, tra autore e pensiero; è in ogni caso pensiero che riflette su sé stesso. Che da sé stesso ricava l’emersione d’una condizione propriamente attraversata o, per altri versi, “desiderata”. Così, tutti assieme e nella loro apparente diversità tematica (apparente per chi osserva dall’esterno, non certo per chi concepisce l’immagine), quei “frammenti” costituiscono il senso di una “locuzione” complessa, per la quale naturalmente anche evocarsi il succedersi “temporale” che, nella memoria, è ovviamente un tutt’uno. Quindi, proprio molteplicità nell’unità.

 Per la composizione “dittica” e “trittica” il ragionamento è, per certi versi, “diverso” ma non totalmente “dissimile”. E, allora, vien da credere che sia anzitutto immagine la quale, per essere, necessita di un proprio spazio. Allo stesso modo in cui tale presupposto parrebbe trovar conferma nella tematica prevalente. Uomini e donne, per lo più (Figure). Soggetti che, seppur nella reciproca unione e in termini di vita, hanno esigenze di un loro luogo (non per nulla, e pur se per un “ciclo” di altra tematica, Duran ha adottato il termine “monade”). Paradossalmente, allora, l’unione è proprio nello spazio che li separa (Dittico). Di qui, e per quel che anche attiene alla generalità delle immagini, una riflessione che pur riguarda, filosoficamente si direbbe, il concetto di esistenzialità (“[…] come se il raccontarsi -scrive- l’esserci, l’apparire (non in senso esteriore, quanto interiore) fosse “in fieri” da sempre, in quanto è […]”). Esistenzialità per la quale, tuttavia, non si fa ricorso, come assai spesso accade (a meno di non considerarlo insito nel principio stesso dell’esistenza), al riferimento d’una drammaticità. Che, anzi, parrebbe che Duran si tenga da esso e dal suo opposto equidistante.

Ciò dice come, alla fine, il suo fondamentale interesse sia non già volto alle ragioni d’una narrazione, ma al farsi pittura della narrazione. Ed ecco, come s’accennava, l’elaborazione della materia; la concezione degli spazi, gli equilibri compositivi, e quanto altro. Nel quanto altro osservando, ad esempio, gli accordati accenti di luci e di ombre. Si veda con quale intenzione “volumetrica” queste, ad esempio, determinino la fisicità di un corpo (Inverso). Per pennellate, non raramente agre, a strisciare su un supporto che, di legno, assorbe il colore.

Domenico Guzzi

 

A proposito di: In Riflessione (fotogramma 1-2-3-4 ). Estate 2006

“La nozione di un’opera come gruppo d’opere, una tela come implicazione di altre tele intorno a lei, è diventata così fondamentale per l’artista che perfino un quadro isolato diventa un caso particolare d’insieme.

Infatti , la serie di momenti che conducono a un altro possono riguardare diverse tele che si possono tutte apprendere e confrontare, ma che si inseriscono già comunque, nello stato definitivo di ognuna, che le recupera, affermando così una supremazia assoluta, di cui è ciononostante possibile attestare l’esistenza e conservare il ricordo, come l’artista fa, con fotografie o film”

Michel Butor – Saggi sulla pittura

 

L’unico vero viaggio (…) sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, vedere i mille universi che ciascuno vede, che ciascuno è. Così poneva termine Proust al suo percorso attraverso il Tempo, con una osservazione che sembrava alludere a una rappresentazione dentro la rappresentazione.(…)

Roland Barthes – La Camera Chiara

 

Le tre citazioni poste a premessa sono perfettamente attinenti alla serie di dipinti che Duran presenta nella quadrupla sequenza eseguita molto recentemente e presentata per la prima volta nello studio di Via Urbana, e che apre una nuova possibile indagine sul ritorno al figurativo dell’artista e tenta di darne una lettura meno sfumata e più consona all’insieme degli ultimi, ma non ultimissimi, lavori che sono stati realizzati fin da tre anni a questa parte. La novità, in un certo modo, fino ad oggi, esitata, forse consiste in un avvicinarsi ad un elemento che nelle opere realizzate, era stato solo sfiorato, con un aggirarsi quasi timoroso di non poter poi più chiudere la strada con fatica intrapresa; nell’abbandono di una prassi che solo occasionalmente aveva allontanato la concretizzazione del compiuto informale. Tale elemento di novità è indubbiamente il Tempo, ovvero la sua lacerazione negli atti e nell’attimo di stasi che realizza il momento pittorico, figurativo e non, schiacciandosi nella fissità e nel conseguente silenzio. Nella sequenza il tempo è rarefatto; è uno sfondo che permane e resta violato dall’emergere delle figure e degli oggetti, mai secondari, che via via, concatenandosi, vivificano la consequenzialità. Citare, in contrapposizione, il piano sequenza cinematografico è inevitabile. Contrapposizione arricchita evidentemente dall’immagine fissa che è base dello specifico pittorico e ne è qualche volta, per cattiva sorte, la costrizione. Siamo al limite invalicabile, forse, ma anche alla ricerca di fusione dei due elementi fondamentali, movimento e tempo. Nella parte finale dell’ultimo rettangolo, nel colore corrusco di tenebra, il tempo realizza la sua continuità imprescindibile e inarrestabile, il colore lo rende concreto, ormai a chiudere una serie d’immagini di luminosità solare che volta per volta s’incastrano nei bianchi e nei rosa, penetrando, in armonia, nel Tempo.

Rolando Culluccini

    

    

Comincio a prendere in considerazione quest’ultimo ciclo, oltre che nel suo flusso, continuo, estremamente consequenziale, senza per questo averlo deciso a priori, anche nell’analisi. Come se il raccontarsi, l’esserci, l’apparire (non in senso esteriore, quanto interiore) fosse “in fieri” da sempre, in quanto è.
L’uso della nozione di anima è condizionato dal riconoscimento che un certo insieme di operazioni o di eventi, quelli appunto detto psichici o spirituali, costituiscano le manifestazioni di un principio autonomo, irriducibile per la sua originalità ad altre realtà, sebbene in rapporto con esse.
Che poi l’anima sia incorporea o abbia la stessa costituzione delle cose corporee è questione meno importante, giacchè la soluzione materialista di essa è spesso ugualmente fondata, come la sua opposta, sul riconoscimento dell’anima come sostanza.
Sicuramente nell’inseguire quell’attimo, fermo, bloccato, unico; quell’istante che comprende il tutto, cerco di esprimere con la “fisicità” più estrema, quella sostanza che appartiene all’essere umano.

La dualità corpo/anima che è l’essenza della vita. Nella quiete e nel moto.

Blocco nell’immagine riflessa il tutto.

L’anima è nel mondo la realtà più alta o, qualche volta lo stesso principio ordinatore e governatore del mondo. Anche l’impianto compositivo, cromatico, iconografico volge a questo.

La necessità di esprimere l’attimo vitale che racchiude l’insieme di infiniti attimi che animano una vita. Ma, allo stesso momento, esprimere simbologicamente il fare e l’essere fisico, psichico e spirituale. Aspirazione al trascendere.

Secondo Aristotele, l’anima è la sostanza del corpo. Essa è definita come l’atto finale (eutalachia) primo di un corpo che ha la vita in potenza.

L’anima sta nel corpo come l’atto della visione sta nell’organo visivo: è la realizzazione delle capacità che è propria di un corpo organico.

Come atto e attività l’anima è FORMA e come FORMA e SOSTANZA, in una delle tre determinazioni della sostanza che può essere o la forma o la materia o il composto di forma e materia.

Così l’immagine/icona che ripete un’azione, una non azione. L’una conseguente all’altra come fotogrammi/forma della vita di un essere unico in relazione all’infinito.

Finestre/Monadi che contengono tutto, autonomi specchi di istanti della vita.

IN RIFLESSIONE

Barbara Duran – Estate 2006