“Tutto ciò che vedo diventa per me forma e “stato d’animo”.
Anch’io a volte vedo quelle forme riconducibili che la gente scorge nei miei quadri.
(…) La pittura non è il primo oggetto che colpisce la retina… è ciò che vi sta dietro.
Non mi interessa “astrarre”, o estrarre le cose, oppure ricondurre la pittura al disegno, alla forma, alla linea o al colore.
Il modo in cui dipingo mi permette di continuare, incessantemente, a inserire cose nella pittura:
dramma, dolore, rabbia, amore, un corpo, un cavallo, la mia idea di spazio.
Attraverso gli occhi dell’osservatore queste cose diventano idee o emozioni.”
Willem De Kooning, “Appunti sull’Arte”,1957
Conosco Barbara Duran da tantissimo tempo.
Abbiamo condiviso, sognato, una speranza di ricostruire, di rintracciare, nella danza, antiche civiltà e desuete modalità di comunicazione.
Ricordo ancora che le regalai una piccola danzatrice in giada, di cui io ho la versione maschile, proprio per sottolineare questo legame atemporale che ci legava. La vita passa e scorre e come dice Costantin Kavafis, “ci porta in porti sconosciuti e mai visti”. Ma nell’ultima produzione di Duran ritrovo un legame, una ricerca, alcune volte ossessiva, ma mai fine a se stessa, del Ricordo. Il Ricordo come metodologia del quotidiano, come esercizio del vivere e come eredità da trasmettere nella duplice accezione di Ricordo personale e Ricordo storico.
Vi è infatti, sempre in Duran la volontà di insegnarci un percorso, di indicarci una strada, di guidarci, anche se siamo a volte recalcitranti, sul suo sentiero, verso il suo Ricordo, verso la sua Verità. Non a caso mi vengono in mente dei versi di Ezra Pound, che dicono (perdonatemi, cito a memoria):
“Quello che veramente ami rimane, il resto è scorie.
Quello che veramente ami non ti sarà strappato.
Quello che veramente ami è la tua vera eredità”.
(canto LXXXI)
L’eredità è qualcosa che non si lascia, ma si vive giornalmente, nel fluire delle stagioni, nello scorrere delle nostre quotidiane decisioni, nei fardelli che decidiamo di abbandonare ai lati di una strada o di portarci sulle nostre spalle.
L’eredità è vita e questo è molto chiaro per la nostra artista. L’alfabeto di Duran, anche se pregevoli sono le sue prime opere figurative, (e io ne posseggo alcune) nasce con l’astrattismo, con l’identificazione dei percorsi dell’emozione e dei principi di percezione del reale, giungendo alla definizione di un linguaggio basato sulla funzione espressiva e simbolica del colore e sul ritmo prodotto da rapporti reciproci di forme pure. Una forma pittorica può avere anche valore di apparizione? Certamentesi nel nostro caso.
Barbara Duran, nel confrontarsi con alcune emozioni, nell’ordinare e in qualche modo raffigurare, è infatti costretta a passi, alcune volte drastici, per trasformare tali emozioni e idee in forme nuove o nel delineare queste forme in modo che la loro coerenza e il loro valore autonomo siano equivalenti o maggiori di quello degli elementi che li compongono e da cui derivano.
La forma emotiva suggerita da Duran non deve essere considerata come un mero involucro: essa ha “il genio dell’improprietý”, cambia continuamente, nasce da un mutamento o ne prepara un altro.
La relazione formale intrinseca non è quella tra l’immagine e le cose riprodotte, ma quella che intercorre tra le immagini e un’emozione visiva colta nel suo insieme e che a volte ci stordisce per la sua intensità.
Il dato reale in questo modo si smaterializza, diventa incorporeo, e lo spazio della pittura diventa lo spazio della dualità, tanto della presenza, quanto dell’assenza. La figura, e lo vediamo oggi nelle opere in mostra, esemplificativa di un lungo percorso, affiora, galleggia, sprofonda in un perpetuo divenire. Segno e immagine, nelle sue opere, sono all’origine la stessa cosa che la coscienza rivolge in due direzioni diverse. Vi può essere anche però una sopraffazione del segnoda parte dell’immagine privando quella di ogni contenuto semantico. O, caso inverso, la possibilità di isolare un oggetto del mondo fenomenico, e di forzarlo a subire un processo di irrealizzazione, per passare o a un segno, o a un segno-immagine. Questo è visibile ad esempio nel grande polittico “Forma Corporeitatis” dove sua è una lezione che segue una riduzione degli elementi di linea e colore all’essenziale, cercando di rappresentare l’essenza della realtà, invece che il suo esatto aspetto naturale. O ancora nelle “Monadi” dove l’intima relazione tra il segno e il “sogno”, inteso come luogo altro, diventa familiare e fondamentale. Se il sogno, parola per delimitare un luogo della pittura atemporale, viene vissuto come luogo di una soggettività operante e determinante, disegnare, dipingere, scrivere il sogno o fermare e cristallizzare il segno, è, per Barbara, insieme un esercizio di consapevolezza e di sollecitazione immaginativa che diventa puro fluire nel breve ma densissimo filmato che accompagna l’esposizione.
E non a caso ho citato De Kooning all’inizio di questa breve introduzione perché quello che lui afferma è un augurio che rivolgo all’amica Barbara dal profondo del cuore: “sempre più amore, dolore, rabbia” nella tua pittura e… costringici a seguirti!!!
Renato Miracco – New York, 14/2/09
Curatore d’arte e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York.
Stabat Mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa dum pendebat Filius…
ho ritrovato l’intensità drammatica delle parole di Iacopone da Todi e la profondità della musica di Pergolesi quando per la prima volta ho visto Forma corporeitatis (à las madres), il polittico che Barbara Duran ha dedicato alle Madri di Plaza de Majo, alle vittime della sopraffazione, della violenza e dell’oppressione: un’orazione civile, la sua, che ha il carattere profondo e solenne della composizione sacra. Fotogrammi di un dramma della nostra epoca, in cui la coralità e il movimento della rappresentazione offrono la sintesi tra sofferenza e dolcezza, consolazione e pietà, ribellione e rassegnazione. Un poema moderno del dolore in cui allora come oggi le Madri portano il peso del sacrificio e delle contraddizioni della vita, in cui non vi è più posto per il pianto, ma solo per la dignità della testimonianza, quella di chi ha visto sparire (ieri in Argentina) e morire (oggi nel perpetuo conflitto tra Palestina e Israele) davanti agli occhi i propri figli.
Bianco. Lutto.
Un fazzoletto bianco annodato sulla testa, a ricordare il primo pannolino di tela utilizzato per i loro figli neonati, questo l’emblema delle Madri di Plaza de Majo. Bianco è il nastro dei movimenti che denunciano le violenze contro le donne. Un “mal bianco” – un “mare di latte” – avvolge i personaggi di “Cecità” in cui José Saramago “denuncia con intensità di immagini e durezza di accenti la notte dell’etica in cui siamo sprofondati”. Un’epidemia da cui rimane miracolosamente immune una donna che, compiendo un gesto d’amore, diventa “la possibilità di restituire agli uomini una speranza collettiva, e toccherà a lei inventare un itinerario di salvazione, recuperare le ragioni di una solidale pietà”.
Bianco è l’incombente lenzuolo che ondeggia al vento – quinta teatrale – ne “La danza”, breve ma intenso film che accompagna l’opera Arianna e Aracne di Duran: un presagio? La bambina che danza, la primitività del gesto quasi propiziatorio. L’incanto dell’infanzia e la disillusione della maturità; caos e ordine. Un film struggente in cui il filo di Arianna si è raggrumato in una cicatrice che ferisce le aspettative dell’inconsapevole bambina.
Duran, però, non professa il pessimismo finale di Saramago.
Alla anestetizzazione delle emozioni e della reattività offre il suo punto di vista, un percorso che è un omaggio alla forza del dolore e al coraggio della vita. Perché la memoria (collettiva) ed il ricordo (individuale) siano l’alimento del presente e del futuro di ciascuno e, quindi, di tutti.
Un dono, quello di Barbara: ci ha regalato un paesaggio emotivo, emozioni come monadi e fessure, o spazi aperti di profumi, colori, suoni, uno strumento per disancorare i nostri ricordi, che salgono adagio al punto da sentire la resistenza e udire il rumore delle distanze traversate, in personali “intermittenze del cuore” e della mente. E’ ciò che può accadere guardando il film “Non mi lasciare”: un lungo viaggio nella complessità della vita che conduce alla serenità del distacco, alla consapevolezza e all’accettazione che, come la stessa artista afferma, “permette la lotta, l’integrità, l’etica e la compassione”. Non è un caso che l’approdo, un non-luogo, sia una moltitudine di anime, di luci, di suoni e di …ricordi, un percorso quindi che lei stessa ci indica come itinerario salvifico. E tutto questo con la sapienza tecnica di chi usa la macchina da presa come fosse un pennello, riuscendo a restituire all’osservatore il senso della scoperta di una tela in divenire.
Anna Maria Gioioso
Caro Dio
Liberaci dal pensiero del domani…
Caro Dio
L’idea del potere non ci sarebbe se
non ci fosse l’idea del domani,
la coscienza non avrebbe giustificazioni.
Caro Dio
Facci vivere come gli uccelli del
cielo e i gigli dei campi.
Pier Paolo Pasolini
(da “Trasumanar e organizzar” preghiera su commissione)
Questo ultimo mio ciclo è caratterizzato da un pensiero, filo conduttore di tutta l’opera: un omaggio alla forza del dolore e al coraggio della vita. Il dolore del corpo, della perdita, della separazione. Il dolore di chi ha dignità e forza e per questo viene annientato.
ICONA/MITO che salva, rigenera, accompagna, predice, tesse e partorisce, dà la vita e per questo la perde, uccisa/o da coloro che ha salvato, protetto e accompagnato, svelando. Il dolore di chi verrà sempre annientato perchè ha la facoltà, la volontà e il coraggio di aprire porte e finestre che non possono esserlo. Spiragli subito celati.
O luce che non vedo più
Che prima eri stata in qualche
Modo mia, ora mi illumini per
L’ultima volta.
Sono tornato
La vita finisce dove comincia.
(Edipo re, dialoghi in “Le regole di
un’illusione”)
Un riferimento profondo con l’essenza vita/morte, lo scorrere della vita con le fasi che si susseguono come l’immagine di luoghi/non luoghi, immagini che si susseguono e scorrono in sequenza come dal finestrino di un vagone del treno.
Il grande polittico “Forma corporeitatis (a las madres) è dedicato alle “degne madri dei desapareci-
dos, quelle donne che con i loro corpi e la loro presenza hanno occupato il vuoto delle loro assenze”: Desaparecidos, in senso più letterale: tutti coloro che in America Latina, al tempo delle cruente dittature passate sono scomparsi, in molti casi mai ritrovati e tutti coloro che
in passati anche più remoti, nel nostro drammatico presente e nel futuro (come è evidente, purtroppo sarà) sono scomparsi, scompaiono e scompariranno per mano della violenza di altri, per l’oppressione, la sopraffazione e l’inevitabile risultato di regimi e di guerre che eliminano,
sistematicamente chi lotta per la libertà e la dignità del vivere.
Molte immagini, delle opere pittoriche e ancor più del film, particolarmente astratte, rarefatte, oniriche sono immaginifiche di stati inconsci e profondi dell’essere. Senza per questo alcuna necessaria lettura psicoanalitica, piuttosto il tentativo di trascinare chi ne verrà emozionato e le sentirà affini ad una propria sensibilità …lo scorrere della vita, il succedersi dei giorni, delle stagioni, dei colori e dei luoghi. Lasciare e saper lasciar andar via chi non potrà più esserci accanto, fisicamente, ma solo nel ricordo. Incontrare chi ci sarà accanto per una parte della vita, come
un albero, una montagna…la finestra che si affaccia sulla valle, dove cantano gli uccelli.
Generare vita e non imprigionare mai l’anima dei propri figli, piuttosto accompagnarli per lasciare loro lo sguardo limpido, ampio e sempre stupito e mai intralciare o deviare il loro percorso.
Pennellate che raccontano e avvolgono, ma anche di acide cromie… continui rimandi dove si sve-
la e subito si cela in un avvolgersi/rincorrersi di pathos e tenerezza, eros e sofferenza, mito e natura eppoi solo lo scorrere del “sentire” come evoca magistralmente nelle sue parole “A lume audace” dedicate a questo ultimo ciclo Patrizia de Rachewiltz.
Saper godere il silenzio delle immagini e la musica di echi solo filmati e forse mai esistiti…comun-
que passati e il passato non c’è più, ci sono io, ci sei tu che ne siamo il frutto per diventare anche noi passato ed esistere nel ricordo… di altri e poi di altri… in continue relazioni speculari. Il pensiero che accompagna tanto di questa mia ultima opera
vuol essere anche segnale, naturalmente personale, di un mutamento di vedute… come affacciarsi ad un’altra finestra, provare ad entrare
da un’altra porta.
La vita è un prisma… dalle molteplici facce, dagli innumerevoli colori e profumi: da quello salmastro del mare e degli oceani a quel-lo turgido della terra, da quello acre del sangue e della morte a quello silenzioso e ovattato della neve, da quello profumato dei fiori a quello intenso degli animali…noi calpestiamo le stesse innumerevoli strade e guardiamo infinite sfumature del cielo e delle nuvole.
Noi siamo tutto questo.
Il mutamento sta nel distacco e dunque, paradossalmente nell’esperienza profonda e vissuta che permette l’accettazione. L’accettazione che, paradossalmente permette la lotta, l’integrità, l’etica e la compassione. La dignità del vivere che, almeno un po’, permette di accettare la fine del vivere:
la morte.
Chi ha calpestato i campi di papaveri e guardato l’oceano, chi ha saputo amare i propri genitori e i
propri figli, difendere i propri amici, avere rispetto di sé e del proprio amore, senza stereotipi e senza ipocrisia, avrà nostalgia di tutto questo ma mai rimpianti e guarderà sempre oltre… per incamminarsi in strade sconosciute con curiosità e coraggio
senza averne troppa paura.
Barbara Duran
Bagnoregio, Gennaio 2009
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